OLTRE TRE MILIONI in Italia, un vero e proprio esercito di invisibili. Parliamo dei caregiver: genitori, partner, figli, fratelli, amici che assistono una persona malata, senza alcun compenso. Secondo i dati diffusi in occasione di Exposanità 2016, si stima che ciascuno di loro si occupi del proprio caro per 18 ore al giorno in media, per un totale di oltre sette miliardi di ore di lavoro. Spesso i caregiver non hanno alcuna formazione specifica e si devono destreggiare tra ostacoli burocratici, difficoltà organizzative e relazioni non sempre semplici con i medici. A loro, e in particolare a chi si occupa delle persone malate di cancro, l'Aiom - Associazione Italiana di Oncologia Medica e la Fondazione Aiom dedicano il primo corso per formatori di caregiver in oncologia (il 30 marzo a Milano), e che ha l'obiettivo di migliorare l'accoglienza nei reparti di oncologia degli ospedali. Ma quali sono i problemi che i caregiver devono affrontare quotidianamente? Lo abbiamo chiesto direttamente a loro: a tre donne che si sono prese cura del proprio padre durante la malattia oncologica.
La fatica di comunicare con i medici. “Mettere il paziente al centro”, “curare la persona e non la malattia”, “creare un'alleanza terapeutica”. Bellissimi concetti, ma quanto sono calati nella realtà? Forse ancora poco. Ai medici manca di certo il tempo da dedicare, e spesso una buona preparazione su come comunicare con i pazienti e i loro familiari. Come ci racconta Laura di Mantova, 40 anni, figlia di Giacomo, malato di tumore al colon e al rene (nomi d fantasia).
“La fatica più grande per me è sempre stata quella di fare da filtro tra i medici e mio padre. In diversi anni di malattia abbiamo avuto a che fare con parecchi dottori tra Mantova e Bologna, e raramente ho trovato qualcuno che fosse capace di relazionarsi con lui, a partire dal medico di famiglia. Che, sebbene mio padre presentasse sangue nelle feci, ha deciso di aspettare mesi prima di prescrivere la colonscopia. Non so se siamo stati particolarmente sfortunati, ma non potrei spezzare molte lance. Sono assolutamente per l'onestà nella comunicazione, però credo che il modo con cui si parla al paziente possa fare la differenza: non è solo il contenuto, ma anche la forma. Basta una frase per 'uccidere' una persona fragile. Parole dette a sproposito o con leggerezza, senza riflettere sulle ricadute psicologiche, e statistiche generiche sulla prognosi non servono di certo. Come: 'Magari se la operiamo guadagna qualche mese...'. Come si fa a dire una cosa del genere? L'empatia non si impara e non si chiede tanto, ma i medici che ho incontrato non erano preparati in fatto di comunicazione. Soprattutto, l'alleanza medico-paziente di cui si legge sui giornali non l'ho mai trovata e non ho mai avuto la sensazione che il benessere di mio padre fosse al centro dell'interesse di chi lo aveva in cura. Spero che le cose cambieranno davvero”.
Diritti dei malati e dei caregiver? Manca l'informazione. Passare dalla sala di attesa del medico che darà la diagnosi alla sala operatoria o al reparto di chemioterapia è un attimo. Tutto accade in fretta e spesso ci si sente smarriti. Certo, se gli ospedali potessero fornire qualche informazione di base sui protocolli di cura, sui percorsi previsti e, perché no, anche sui diritti dei malati e dei loro familiari, la vita sarebbe più semplice. Anche perché la burocrazia non aiuta, tra Inps, patronati, visite per confermare l'invalidità (anche per chi ha una malattia metastatica alle ossa ed è sulla sedia a rotelle da anni). Il che si traduce spesso in un'immensa perdita di tempo per i malati stessi e per i caregiver. La legge 104, che garantisce ai pazienti e a un familiare (con un lavoro dipendente) la possibilità di assentarsi dal lavoro, è utile ma non sufficiente, come racconta Elena, 36 anni, figlia di Antonio, malato di un tumore alla prostata in fase metastatica, Roma (nomi di fantasia).
“Mio papà è malato da diversi anni, ma tra settembre e novembre ha avuto un grave peggioramento. È stato un momento drammatico, perché non era più in grado di fare nulla da solo. Per quei tre mesi non è esistito più niente per me, neanche la mia famiglia. La mattina portavo i bambini a scuola e andavo lui. Facevo la spesa, lo accudivo, cucinavo, mi fermavo a dormire almeno tre volte a settimana. Per tutto quel periodo, ho provato un'ansia fortissima e appena non rispondeva al telefono mi precipitavo sotto casa sua. Ho potuto farlo perché sono freelance. Mia sorella, che ha un lavoro da dipendente, non avrebbe potuto. Abbiamo scoperto tardi l'esistenza della legge 104, perché nessuno ce lo aveva mai detto. Sarebbe importante se i medici o gli ospedali fornissero un kit di informazioni base. In ogni caso, i pochi giorni di permesso garantiti da questa legge non sarebbero stati sufficienti. Non ci sono molte alternative per chi non si può permettere un aiuto esterno”.
Anche l'ambiente conta. La chiamano “umanizzazione degli ambienti ospedalieri”: significa migliorare l'accoglienza, da tutti i punti di vista, dei luoghi in cui ci si reca per fare le terapie e gli esami. Sembra una cosa di poco conto, invece l'impatto sulla percezione dei pazienti può essere determinante e può incidere anche sull'aderenza alle terapie. Lo dimostra la storia di Anna, 51 anni, figlia di Pietro malato di tumore alla prostata in fase metastatica, Milano (nomi di fantasia).
“Per tutta la malattia di mio padre, sono stata il suo riferimento 'medico': tutti i sabato ero a pranzo dai miei e puntualmente, quando se ne usciva con una domanda sulla sua malattia, io avevo pronta in borsa una bella immagine stampata dell'apparato urologico. Si fidava ciecamente di me ed ero io a tenere i rapporti con l'oncologo. Il periodo peggiore è stato quando ha dovuto cominciare la terapia del dolore. Era un gioco al massacro essere lì e toccare con mano la sofferenza del malato e del caregiver. Il personale era eccezionale, umanamente e professionalmente, ma l'impatto con l'ambiente è stato molto pesante a livello psicologico, tanto che dopo un paio di volte abbiamo deciso insieme, io e mio padre, che non ci saremmo più andati e di interrompere la terapia. Ho metabolizzato tutto, tranne quello”.
di di TIZIANA MORICONI - Repubblica.it